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Back to Italy

Finalmente ci siamo, il momento tanto atteso è arrivato, dopo 3 mesi, 90 giorni e ho perso il conto delle ore…per Pasqua si ritorna in Italia.

Partiamo dall’aeroporto di Amsterdam con un freddo pungente e io mi porto come souvenir dall’Olanda una bella bronchite, ma pazienza.

Il viaggio trascorre come al solito, Federico non fa in tempo a sedersi sull’aereo che si addormenta mentre Alice non appena le mettiamo la cintura di sicurezza sembra posseduta: piange, strilla e si dimena in cerca di libertà. Mi sto quasi abituando alla gente che ci guarda e sbuffa con aria di rimprovero, e manderei tutti a quel paese.

Non appena scendiamo dalla scaletta il mio viso viene investito da una corrente tiepida. Il cielo è grigio e promette pioggia, ma l’aria è stranamente calda. Io mi sento come in una bolla. Come se fossi stata in ospedale e ne uscissi la prima volta da convalescente.

Tra gli estranei in attesa agli arrivi scorgo il volto vispo di mia madre e scoppio a piangere. No, non riesco a fermare i singhiozzi. La gente mi guarda, Federico mi osserva stranito ma è più forte di me. Mi trascino questo problema dell’eccessiva emotività dalla prima gravidanza, insieme alla nausea per il caffè, alla cinetosi (che altro non è che la nausea che accompagna i miei viaggi in auto, aereo e traghetto…) e a piccole altre rotture. Ero solita dare la colpa agli ormoni, come se fossi stata posseduta da piccoli extraterrestri che non mi facevano rispondere delle mie azioni, ma diciamo che dopo 5 anni devo ricercare le cause delle mie lacrime facili altrove…

Mia madre reagisce al mio pianto inconsulto col suo senso pragmatico: “ma cos’hai?! Matteo, ma mia figlia è depressa! ma tu sei depressa! Perché piangi?!”. Ecco, fine della poesia.

Durante il viaggio in auto dalla Malpensa le immagini scorrono veloci; questo paesaggio grigiastro, questa natura dai colori spenti, e queste case trascurate della campagna lombarda mettono una certa tristezza. Il viaggio mi sembra lunghissimo, quasi interminabile, ma riusciamo ad arrivare a casa incolumi (sì, ho sempre questo senso di tragedia imminente quando devo affrontare dei viaggi, soprattutto in auto. Ad ogni arrivo mi sento una sopravvissuta e penso: “ dai che anche questa volta è andata bene”. Ma col tempo ci si abitua anche a questo. Davvero).

Aprendo la porta di casa provo uno strano senso di estraneità e di gelo. Come se tutti questi oggetti che mi circondano fossero appartenuti a qualcun altro. Federico esprime bene questa sensazione grazie alla sua istintività fanciullesca e si aggira per la casa urlando: “mamma è tutto nuovo!!!! I muri nuovi! le porte nuove! il frigo nuovo!!!!!” e mi strappa un sorriso.

Lui e Alice aprono le ceste di giochi scartati che avevamo lasciato qui ed è come se fosse Santa Lucia. I bambini sono splendidi.

Svuotando le valigie i movimenti che prima avvenivano in modo automatico, quasi senza pensarci, ora sono accompagnati da gesti lenti e goffi. Questi muri che mi hanno sostenuta per molto tempo ora mi sembrano sconosciuti. Le stanze che una volta mi scaldavano il cuore mi sembrano glaciali. Questi luoghi che hanno ospitato notti insonni, risate e lacrime, che hanno visto crescere i nostri figli e il nostro amore giorno dopo giorno ora non mi appartengono più. O forse è esattamente il contrario, sono io che non appartengo più a loro.

Sento l’eco delle nostre voci, scorgo le immagini sfuocate del nostro passato come se fossero la pellicola di un vecchio film: il divano in cui allattavo Alice, i baci alle cosce nude sul fasciatoio, i salti sul lettone…ogni angolo di questa casa conserva un ricordo.

Ma perché allora la sento così lontana? Perché il mio sguardo ora si concentra solo sulle crepe dei muri che prima nemmeno notavo?

La mia mente rifiuta di pensare che le memorie appartengono al nostro cuore, non ai luoghi, e cerca invano un posto sicuro dove custodirle perché non scappino via per sempre.

Ma quel posto non è più qui. Non ora. E mi sento persa. Realizzo che non ho più una casa.

Che non appartengo più a nessun posto.

Matteo deve ripartire quasi subito per lavoro ma la mia settimana “di convalescenza” scorre abbastanza tranquilla, rivediamo amici e parenti…le persone che ci conoscono. Nessuno sforzo per essere più simpatici, nessun timore di essere fraintesi. Sono rimasti tutti uguali, e questo mi conforta e mi rassicura. I loro sorrisi e le loro parole mi scaldano il cuore. Come un malato che riprende a camminare, inizio gradualmente a riacquistare confidenza con la gente e gli ambienti, a piccoli e lenti passi.

Ho una violenta discussione con mia madre. Comprendo che non è facile capire la mia condizione e che i miei alti e bassi possano scatenare reazioni difensive da parte di coloro che vorrebbero poterti aiutare ma si sentono impotenti…così finisce che gli stai quasi sulle palle. Non capiscono che trovare un punto fermo dentro di sé e non al di fuori richiede tempo. E pazienza. Che quando le certezze e i punti di riferimento che avevi vengono a mancare, devi poter contare solo su te stessa. La tua mente ha bisogno di riorganizzare tutto, di dare un nuovo ordine, costruire nuovi pensieri e soprattutto di schemi mentali differenti (scusate lo “psicologese” ma non trovo altro modo per esprimere questi concetti).

Ad occhi esterni sembri solo una bambina viziata che si lamenta. Non una quarantenne che sta ristrutturando la propria vita. Che sta ripassando l’inglese dopo 20 anni, che si mette al computer con una bambina in braccio per imparare un po' di olandese, per scrivere un blog, per attingere ad ogni risorsa che le è rimasta a disposizione per reagire in qualche modo, qualsiasi modo….

Ma è inutile. Non puoi spiegarlo. Non possono capirti. E ti senti ancora più sola.

Stai male. Fai stare male chi ti vuole bene, ma non hai l’energia per pensare anche agli altri ora. Non più.

E la settimana italiana finisce così. Ripartiamo la domenica sera con un po' di amaro in bocca e con le valigie piene di malinconia. Non è facile salutare gli amici, quegli sguardi familiari, quel modo di capirsi anche senza parlare….

L’aereo decolla, si vedono nel buio della notte le luci di Verona, e Federico inizia a piangere. Non è il classico pianto da bambino, ma doloroso e soffocato. Con gli occhi colmi di lacrime mi dice che gli manca l’Italia, la sua casetta, che è tanto triste…

E’ come un pugno allo stomaco. In questi mesi non ho fatto altro che ripetermi che tutti i sacrifici erano volti a garantire un futuro migliore e un’infanzia felice ai nostri figli, che un giorno ci avrebbero ringraziato per questo, ma ora ogni certezza vacilla. Mi chiedo se avevamo il diritto di scegliere per loro. Se un giorno invece non ci rinfacceranno di non aver dato loro radici ed affetti sicuri, per essere sballottati in ogni parte del mondo ogni tre anni. Lo stringo forte a me, trattenendo le lacrime. Diamoci tempo bambino mio. Andrà tutto bene vedrai.

All’aereoporto viene a prenderci Matteo. Carica le valigie col suo modo sicuro e silenzioso, mai ostentato. Lui è così: senza tante parole ma lui c’è. Ci guardiamo negli occhi e mi sento rassicurata appoggiandomi su quelle spalle forti e larghe. In quell'istante capisco che una casa io ce l’ho invece e non è in nessuno luogo... e una frase apparentemente insignificante acquista ora una nuova forma e un significato profondo: “Home is where the heart is”.

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